Kosztolányi Dezsõ
Come qualcuno caduto tra i binari(Mint aki a sínek közé esett, 1910)
Come qualcuno caduto tra i binari, che rivede la sua vita che sfugge, mentre fa ticchettio la ruota scottante, passano tante immagini fulminee e vede come non ha visto mai: come qualcuno caduto tra i binari, saluto la vita, che è diventata lontana, estranea, come qualcuno caduto tra i binari, panorama matto, piacere perverso, tra ruote e binari, il tempo romba sopra di me e la morte tuona da lontano, per un attimo mi aggrappo a quello che è eterno, farfalle e sogni, terribili e dolci... come qualcuno caduto tra i binari. Oh, quante volte vi vedo
(Ó, hányszor látlak mégis bennetek )
Oh, quante volte vi vedo Piccoli fratelli miei, bambini in stracci. In giardini brinati, sotto la mia finestra, là vi ribellate, muti, senza paura, sotto l'ombra dei pini, in neve e nebbia. Il piccolo muratore quanto è inzaccherato, come pallido il piccolo magnano, il figlio del carpentiere è come Gesù, alza il martello il piccolo fabbro, piange il figlio del falegname e carraio, e fatto di bambini questo esercito. Chiamerei mio padre, ma lui dorme, è profonda e senza confini la notte. Li guardo e piango per loro, loro, i piccoli ribelli della notte. Combattendo il buio con gli occhi aperti nella stanza calda mi alleo a loro e attraverso la finestra e contro ogni sorte pongo loro la mia piccola mano da signore. Sogno di inchiostri colorati( Mostan színes tintákról álmodom, 1910)
Sogno di inchiostri colorati, il più bello è il giallo. Scriverei molte lettere con questo colore ad una ragazza, che amo. Scriverei scarabocchi, lettere cinesi, e un uccello allegro con dei ghirigori. E voglio ancora tanti altri colori: bronzo, argento, verde e oro, e ci vogliono ancora cento e mille, e poi un milione: viola scherzosa, color vino, grigio muto, pudico, sgargiante, innamorato, ma anche viola triste e color mattone, e poi celeste chiaro come l'ombra della vetrata colorata del portone in un mezzogiorno d'agosto. E voglio rosso vivo, color sangue, come un tramonto infuocato, e allora scriverei, scriverei sempre. Con azzurro a mia sorella, con oro a mia madre: le scriverei una preghiera d'oro, fuoco d'oro, parola d'oro, come l'alba. E non mi stancherei mai, scriverei in una vecchia torre, senza sosta. Sarei tanto felice, oh Dio mio, tanto felice, colorerei tutta la mia vita. Felice, triste canzone(Boldog, szomorú dal, 1920)
Ho pane e anche vino, ho moglie e anche figlio. Perchè rattristrarsi? Ho sempre da mangiare. Ho un giardino, gli alberi si inchinano sulla via sussurrando. Noce, papavero, nocciole, nella dispensa la raccolta. Ho anche una buona coperta, il telefono, una valigia, la gente che mi vuole bene, a cui non devo chiedere nulla. Non sono più il fantasma di una volta, ubriaco tra lacrime nella nebbia, e quando saluto la gente, molti mi salutano già prima. Ho l'elettricità, la luce, ho una tabacchiera di puro argento, nella mia bocca la vecchia pipa, si muovono allegri penna e matita.. C'è il bagno per rinfrescarmi, tè tiepido per i miei nervi stanchi, e quando passo a Budapest, mi conoscono già tanti. Quello che decanto, commuove tanti, e mi considera il suo giovane figlio poeta la vecchia Ungheria. Ma, certe volte, mi fermo la notte, tormentato e pensando alla morte, e cerco il tesoro nascosto, il tesoro di una volta, il vecchio, come un malato febbricitante, che si sveglia e confuso cerca di sbrogliare il suo sogno, che ahimè che cosa volevo? Perchè il tesoro non l'ho trovato, il tesoro per cui mi sono bruciato. Sono a casa in questo mondo, e non sono più a casa nel cielo. Vuoi giocare?(Akarsz-e játszani ?)
Dimmi, vuoi giocare con me? Giocare sempre, andare nel buio insieme, giocare ad essere grandi, mettersi seri seri a capo tavola, versarsi vino e acqua con misura, giocare con perle, rallegrarsi per un niente, indossare vecchi panni col sospiro pesante? Vuoi giocare a tutto, che è vita, l'inverno con neve e il lungo autunno; si può bere un tè insieme di color rubino e di fumo giallo? Vuoi vivere la vita con il cuore puro, ascoltare a lungo e temere ogni tanto, quando sulla strada passa novembre e lo spazzino, questo povero uomo, che fischia sotto la nostra finestra? Vuoi giocare ad essere serpente od uccello, fare un viaggio lungo con nave o treno, giocare a Natale, sognando tutte le bontà? Vuoi giocare all'amante felice, fingere di piangere, un funerale? Vuoi vivere, vivere per sempre, vivere nel gioco, che diventa reale? Sdraiarsi tra i fiori per terra, e dimmi, vuoi giocare alla morte? |
Ebrezza d'alba(Hajnali részegség)
Te lo racconto questo se non ti annoio, ieri notte alle tre, finito il lavoro, sono andato a letto. Ma nella mia mente la macchina da scrivere continuava a battere col ticchettio tanto forte che non riuscivo a dormire. Il sonno non venne, sebbene lo desiderassi fortemente, ma chiamandolo con parole, con sonniferi potenti, e contando le pecore non serviva a niente. Quello che avevo scritto mi guardava dritto. Mi stressavano il cuore le quaranta sigarette. E tutto il resto, il buio, tutto. Allora mi alzo e non mi importa, cammino su e giù nella stanza, attorno a me la mia famiglia, sulle loro labbra la dolcezza di bei sogni, beati loro, e mentre io brancolo nel buio, come un ubriaco, guardo fuori dalla finestra. Aspetta, come te lo dico, come te lo spiego? Tu conosci la mia casa, ti ricordi la mia stanza, lo sai quanto povera ed abbandonata sembra di qua a quell'ora la strada. Ci vedi dentro le case attraverso le finestre, gli uomini sdraiati e ciechi, scrutano con gli occhi chiusi, nella nebbia della loro mente, che li inganna e li tradisce, perchè il cervello di anemia soffre. Accanto a loro le scarpe e vestiti, e nella stanza sono chiusi, come in una scatola, che hanno costruito da svegli con tanta fatica. Ma se le guardi in questa maniera ogni casa è come una gabbia. Si sente ticchettare la sveglia, ora cammina zoppo, fra poco suona: "svegliati alla realtà, è ora!" E dorme anche la casa, morta, e se fra cent'anni crolla, ci crescerà gramigna, e non sospetterà nessuno, se era la nostra casa o una stalla. Ma lassù, amico mio, là sopra, il cielo pulito, di luce splendente, inamovibile sebbene tremante, come la fedeltà. Il cielo del tutto simile alla coperta di mia madre, ed alla macchia blu di acquerello che si allargò sul mio quaderno. E l'anima delle stelle respira senza far rumore, nella notte dell'autunno mite, che il freddo precede. Di lassù lontano ed oltre, loro, che hanno visto l'armata di Annibale, ora guardano me, in piedi qua, in una finestra della città. E non so che mi successe allora, ma mi sembrò sentire un'ala, e mi si avvicinò quello che avevo seppellito tempo fa, l'età dell'infanzia. E guardai tanto a lungo i ricchi miracoli del cielo che arrivò l'albeggiamento dall'oriente e nel vento, scintillanti, si mossero appena appena le stelle. E là sopra nella distanza si accese una fascia luminosa, e si aprì il portone di un castello celestiale, si avvampò la fiamma, e la folla degli ospiti cominciò a sperdersi. E nelle tenebre dell'alba, la notte di ballo finiva, fuori nell'ingresso l'ospite - un gigante del cielo - salutò, si sentì tintinnio e sussurro, come quando il ballo finisce e si chiama il cocchiere. Si vide un velo di pizzo, che da lontano come tenda di diamante scende, su un vestito splendente che una donna bellissima indossa e su di lei un diamante che sparge luce su questa pace, sul blu pallido e celestiale. Oppure un angelo che con un bel gesto si aggiusta il suo diadema, e in un cocchio leggero sale senza fare alcun rumore, e vola via con la carrozza. Mentre i cavalli corrono selvaggi, sulla Via Lattea illuminata da fuochi artificiali, come al carnevale, tra stelle filanti e coriandoli, tra centinaia di cocchi, scintillano i loro ferri. E stavo là con la bocca aperta e esclamai di gioia, che nel cielo ogni notte un ballo simile si tiene, e in me si illuminò il significato di questo gran mistero, che le fate del cielo sulle vie dell'infinito, arrivata l'alba, tornano tutte a casa. E rimasi così fino al mattino e guardavo solo. Poi dissi d'improvviso: e tu che ci fai qui, su questa terra, che leggende cerchi, che sirene ti tengono in balia? Cosa c'era più importante, ora che sono passate tante estati, e tanti inverni gelidi, e tante notti inutili, che vedi solo ora questo ballo? Cinquanta! Sono cinquant'anni, che il ballo si festeggia qui sopra di me, e ahimè, i miei vicini celestiali mi vedono asciugarmi gli occhi. Te lo confesso, mi sono inchinato e tutto ciò l'ho ringraziato. Vedi, lo so che non ho fede, e so pure che dovrò andarmene. Col cuore, come corda tesa cantai allora all'azzurro. Per Lui che non sa nessuno dov'è e nemmeno io lo trovo né ora né da morto. Ora che i miei muscoli non sono più tanto forti, capisco che finora stavo nella polvere tra anime e briciole, ma comunque sia di un signore misterioso e potente ero sempre l'ospite. |