Nem mondhatom el senkinekNem mondhatom el senkinek,
Elmondom hát mindenkinek Próbáltam súgni, szájon és fülön, Mindnyájatoknak, egyenként, külön. A titkot, ami úgyis egyremegy S amit nem tudhat más, csak egy meg egy. A titkot, amiért egykor titokban Világrajöttem vérben és mocsokban, A szót, a titkot, a piciny csodát, Hogy megkeressem azt a másikat S fülébe súgjam: add tovább. Nem mondhatom el senkinek, Elmondom hát mindenkinek. Mert félig már ki is bukott, tudom De mindig megrekedt a féluton. Az egyik forró és piros lett tőle, Ő is súgni akart: csók lett belőle. A másik jéggé dermedt, megfagyott, Elment a sírba, itthagyott. Nem mondhatom el senkinek, Elmondom hát mindenkinek. A harmadik csak rámnézett hitetlen, Nevetni kezdett és én is nevettem. Gyermekkoromban elszántam magam, Hogy szólok istennek, ha van. De nékem ő égő csipkefenyérben Meg nem jelent, se borban és kenyérben, Hiába vártam sóvár-irigyen, Nem méltatott reá, hogy őt higgyem. Nem mondhatom el senkinek, Elmondom hát mindenkinek. Hogy fájt, mikor csúfoltak és kínoztak És sokszor jobb lett volna lenni rossznak, Mert álom a bűn és álom a jóság, De minden álomnál több a valóság, Hogy itt vagyok már és még itt vagyok S tanuskodom a napról, hogy ragyog. Én isten nem vagyok s nem egy világ, Se északfény, se áloévirág. Nem voltam jobb, se rosszabb senkinél, Mégis a legtöbb: ember, aki él, Mindenkinek rokona, ismerőse, Mindenkinek utódja, őse, Nem mondhatom el senkinek, Elmondom hát mindenkinek. Elmondom én, elmondanám, De béna a kezem s dadog a szám. Elmondanám, az út hová vezet, Segítsetek hát, nyujtsatok kezet. Emeljetek fel, szólni, látni, élni, Itt lent a porban nem tudok beszélni. A csörgőt eldobtam és nincs harangom, Itt lent a porban rossz a hangom. Egy láb mellemre lépett, eltaposta, Emeljetek fel a magosba. Egy szószéket a sok közül kibérlek, Engedjetek fel lépcsőjére, kérlek. Még nem tudom, mit mondok majd, nem én, De úgy sejtem, örömhírt hoztam én. Örömhírt, jó hírt, titkot és szivárványt Nektek, kiket szerettem, Állván tátott szemmel, csodára várván. Amit nem mondhatok el senkinek, Amit majd elmondok mindenkinek. |
Non posso dirlo a nessunoNon posso dirlo a nessuno,
lo racconterò quindi a tutti, ho provato a sussurarlo dalla bocca all'orecchio di ognuno di voi il mistero, sempre lo stesso, che non si può conoscere solo come singoli individui. Il mistero, per cui tempo fa nacqui in sangue e sporcizia, la parola, il mistero, il miracolo per trovare qualcuno e sussurargli: diffondilo. Non posso dirlo a nessuno, lo racconterò quindi a tutti, perché ormai è uscito, ma solo a metà: una, accaldata e arrossita, fraintese rispondendo con un bacio. L'altro divenne di ghiaccio, è morto, mi ha lasciato. Il terzo mi guardò incredulo, cominciò a ridere, allora risi anch'io. Non posso dirlo a nessuno, lo racconterò quindi a tutti. Da bambino decisi di parlare a Dio ammesso che esista, ma lui a me non si presentò nè come cespuglio di rovi in fiamme nè in forma di vino e pane: per quanto lo desiderassi, non si degnava di darmi la fede. Non posso dirlo a nessuno, lo racconterò quindi a tutti. Perché mi faceva male la tortura e l'irrisione e tante volte sarebbe stato meglio stare dalla parte del Male, perché il peccato e la bontà sono un'illusione: la realtà vale di più dei sogni. Perché sono qui ormai e ancora sono qui e sono testimone del sole che splende, non sono nè dio nè un mondo nè luce del Nord nè un fiore, non sono migliore nè peggiore di nessuno, ma il massimo: un uomo vivente, di tutti sono parente e conoscente, sono avo e discendente. Non posso dirlo a nessuno, lo racconterò quindi a tutti. Lo racconterei, lo farei, davvero, vi indicherei la strada, ma la mano è inerte e la bocca balbetta, tendetemi una mano, alzatemi in alto, per parlare, vedere, vivere qui nella polvere non riesco a parlare. Ho buttato il sonaglino, non ho le campane, qui nella polvere non ho la voce, mi hanno calpestato il torace. Alzatemi in alto, mi serve un palco, lasciate che vi salga, per favore! Non so ancora cosa dirò ma credo di portare buona notizia, di gioia, mistero e l'arcobaleno a voi che ho amato nell'attesa di un miracolo che non posso dire a nessuno, ma lo racconterò a tutti. |
Dal volume Professore, io ho studiato - Lo studente modello viene interrogato (1916)
(Tanár úr kérem - A jó tanuló felel)
Lo studente modello è seduto al primo banco dove sono in tre, in mezzo c'è lui: Steinmann, lo studente modello. Il suo nome non serve semplicemente per indicare una persona, ma è diventato un simbolo. Infatti, ogni studente nella classe e anche i loro rispettivi padri conoscono il suo nome. "Steinmann perché è riuscito ad impararlo?" - chiedono a casa trentadue padri da altrettanti figli. "Chiedi a Steinmann di spiegartelo," - dice il padre al figlio ed egli glielo chiede davvero. Steinmann sa tutto in anticipo prima che lo cominciassero a spiegare. Scrive per riviste matematiche, conosce parole misteriose che vengono insegnate solo all'università. Ci sono cose che sappiamo anche noi, ma come lo sa Steinmann, beh, quello sì, che è davvero giusto, quello è l'Assoluto.
Steinmann viene interrogato.
Questo è un momento speciale, solenne. Il professore guarda il registro a lungo, mentre sulla classe incombe una tensione mortale. Quando, in seguito lessi del regime di terrore durante la Rivoluzione Francese, quando vengono selezionati i condannati a morte tra i prigionieri della Conciergerie: ecco, doveva essere qualcosa di simile. I cervelli stanno boccheggiando in cerca d'aria in uno sforzo disperato, ancora due secondi, tutti richiamano alla memoria gli elementi della progressione geometrica. Professore, io ho studiato, si ripetono tutti nella mente. Professore, ieri mio figlio stava male...
Uno studente si nasconde abbassandosi sopra il quaderno come uno struzzo. Un altro fissa negli occhi il professore, cercando di ipnotizzarlo. Il terzo, con i nervi a fior di pelle, si accascia, chiude gli occhi, si arrende alla scure. Nell'ultimo banco Eglmayer si nasconde completamente dietro Deckmann: lui, non c'è, grazie, non sa di niente, possono scrivere il suo nome tra gli assenti, cancellarlo dalla lista dei vivi, riposi in pace, lui non vuole partecipare alla lotta della vita sociale.
Il professore gira due pagine, starà alla lettera K. Altmann, che all'inizio dell'anno ha cambiato il suo nome per Katona, in questo momento è profondamente rammaricato per il passo frettoloso. Ma poi tira un sospiro, quando le dita del professore si fermano e chiudono il registro. "Steinmann!" dice il professore a voce bassa e con solennità.
Tutti tirano un sospiro di sollievo, Questo è un momento particolare, eccezionale. Steinmann scatta, il suo compagno di banco salta in piedi per farlo uscire, aspettando con umiltà e cortesia, come una guardia del corpo: è un personaggio secondario, decorativo di questo grande evento.
Anche il professore è solenne. Si siede di lato su una sedia, con i polpastrelli delle mani uniti, pensoso. Lo studente modello va alla lavagna e prende il gesso. Il professore è immerso nei pensieri. Lo studente modello intanto afferra il cancellino e velocemente comincia a pulire la lavagna. C'è una eleganza in tutto questo: con il gesto vuole esprimere che egli non ha fretta, non deve sforzarsi di pensare, non ha paura, è sempre pronto, ma, nell'attesa che cominci l'interrogazione, può fare qualcosa utile per la società, per la pulizia pubblica, contribuire al progresso pacifico dell'umanità e così pulisce la lavagna.
"Allora" dice il professore, pensieroso, strascicando la parola "vediamo qualche problema interessante".
Lo studente modello tossisce con cortesia e con profonda comprensione. Certamente, un problema interessante, degno di questa situazione. Ora guarda il professore seriamente e con calore come se egli fosse una bella contessa a cui un conte ha appena chiesto la mano e, prima di rispondere, guarda con comprensione e simpatia negli occhi del conte, sapendo che questo sguardo lo incanterà, mentre il conte con cuore trepidante sospetta che la risposta sarà positiva.
"Allora prendiamo un cono... " dice il conte.
"Un cono" ripete Steinmann, la contessa.
Già il modo come egli pronuncia la parola, con tanta comprensione, con tale intelligenza. Solo lui lo sa quanto è cono il cono in questione. Io, Steinmann, il primo di tutta la classe, prendo un cono, perché sono stato scelto dalla società come la persona più adatta. Ancora non so perché abbia preso il cono, ma potete stare certi tutti che qualsiasi cosa succeda io sarò al mio posto e saprò come farvi fronte.
"Altrimenti", dice improvvisamente il professore, "prendiamo piuttosto un tronco di piramide".
"Un tronco di piramide" ripete lo studente esemplare, se possibile in un modo ancora più intelligente. Egli con esso ha un rapporto altrettanto deciso, amichevole se non superiore, come con il cono. Non si fa certo intimidire da un tronco di piramide. Sa benissimo che un tronco di piramide è come una piramide normale, piramide semplice di cui anche Eglmayer riesce a capacitarsi, da cui è stata tagliata via un'altra piramide.
L'interrogazione dura poco. Si capiscono da mezze parole, loro: lentamente si forma un dialogo intimo tra il professore e lo studente modello. Noi ormai non ci capiamo nulla, questo è un affare tra loro due, anime gemelle che si uniscono qui davanti a noi, nell'atmosfera rarefatta di equazioni differenziali. Nel mezzo di una frase il professore si rende conto che praticamente stanno conversando, ma questa dovrebbe essere un'interrogazione, per giudicare il progresso dello studente. Ma che senso ha finirla? C'è rimasto magari qualche dubbio che egli la sappia completare?
Lo studente modello, modesto e ben educato, torna al suo posto. Un minuto più tardi osserva con enorme interesse il balbettare del prossimo interrogato e cerca di carpire lo sguardo del professore, per fargli vedere che lui, pur senza parole e senza muovere un muscolo del viso, col suo sorriso sprezzante stampato in faccia è perfettamente consapevole della gravità della cavolata che l'interrogato ha detto e sa anche cosa avrebbe dovuto rispondere.
Karinthy Frigyes: Barabba
(Barrabás - 1917)
Il terzo giorno, all'alba, uscì dalla grotta e si avviò sulla strada.
Sui due lati c'erano rovine ancora fumanti. Nella fossa trovò uno di quelli che davanti a Pilato chiedevano la liberazione di Barabba. L'uomo stava urlando nel suo dolore. Gli si fermò davanti e gli disse:
- Eccomi qua!
L'uomo lo guardò e piangeva ancora più forte.
- Rabbi, rabbi!
Il maestro disse mansueto:
- Non piangere, alzati e vieni con me, perché torno a Gerusalemme, per chiedere di nuovo giustizia da Pilato per me e per voi che siete stati trattati così da Barabba.
Il miserabile si alzò in piedi e si aggrappò al suo vestito.
- Vengo, maestro, vengo con te! - disse tra le lacrime. - Dimmi che devo fare, che devo dire per salvarmi!
- Nient'altro - disse lui - solo quello che avresti dovuto dire tre giorni fa, quando Pilato chiese: "Chi volete che liberi, Barabba o il Nazzareno"?
- Oh, povero me, - esclamò il miserabile battendo la testa, - come io pazzo ho potuto scegliere Barabba, proprio lui, che mi ha fatto tutto questo!
- Bene - disse il maestro - allora vieni con me davanti la casa di Pilato e, quando faccio il segno, tu urla con tutta la forza: "Il Nazzareno!", come dicessi: "La mia vita!"
E l'uomo lo seguì.
Hanno poi incontrato un altro, a cui Barabba aveva tolto la casa, moglie, figli e l'aveva accecato. Egli lo toccò e gli disse:
- Sono io. Vieni con me a Gerusalemme e, quando ti toccherò con la mano, urla: "Il Nazzareno" ,come urlassi: "La mia casa! La mia moglie! La luce dei miei occhi!"
E quello, singhiozzando, lo seguì.
Poi incontrarono un altro, a cui Barabba aveva legato le mani e i piedi, e l'aveva buttato dentro un stagno puzzolente.
Gli si avvicinò, lo liberò dalle corde e gli disse:
- Ti conosco, eri un poeta, che proclamavi il volo glorioso dell'anima. Vieni con me e, quando ti faccio il segno, urla:" Il Nazzareno!", come se urlassi: "La libertà! La libertà del pensiero e dell'anima!"
Quello annuì, perché la bocca aveva ancora piena di fango, e gli baciò i sandali.
E così andavano avanti, e a loro si unirono sempre altri, tutti miserabili e penalizzati da Barabba. Ed ognuno di loro piangeva e si batteva il petto, e lo supplicava che sarebbe bastato solo un segno per urlare: "Il Nazzareno!" come se avessero urlato:"Pace, pace su tutta la terra!" Era sera quando arrivarono a Gerusalemme, davanti la casa di Pilato, che stava consumando la sua cena abbondante insieme a Barabba, l'assassino. Si abbuffarono di piatti costosi e bevvero vini corposi; i loro vestiti erano fastosi.
Allora il Nazzareno , in testa alla folla, che lo seguiva, si avvicinò e, alzando le sue mani bucate, disse mansueto:
- Pilato, ancora siamo in tempo, devi fare di nuovo giustizia. Il popolo volle Barabba ed io fui crocifisso, ma sono dovuto tornare, perché il popolo non si rendeva conto di quello che aveva fatto. Ecco sono qua; questi dietro me, hanno conosciuto Barabba ed ora vogliono giustizia. Chiedi a loro di nuovo di scegliere, come è scritto nella legge.
Pilato pensò un pò, poi si strinse le spalle e, affacciandosi sulla terrazza e, meravigliandosi per la grande folla, chiese:
- Allora, chi volete che liberi, Barabba o il Nazzareno?
E il maestro fece il segno. E loro come un tuono, risposero:
- Barabba!
E si guardarono spaventati, perché ognuno di loro diceva: "Il Nazzareno"!
Il maestro impallidì e si girò a guardarli. E riconobbe tutti i volti uno ad uno, ma insieme tutti questi visi facevano una testa enorme, che lo guardava con odio e con disprezzo. Gli occhi erano pieni di sangue e dalla bocca puzzolente uscì l'urlo rauco: "Barabba!" come se urlasse: "Morte, morte!".
Pilato, imbarazzato, abbassò gli occhi e gli disse: "Tu vedi".
Ed Egli salì le scale e porse i suoi polsi al boia per farli legare.
Il terzo giorno, all'alba, uscì dalla grotta e si avviò sulla strada.
Sui due lati c'erano rovine ancora fumanti. Nella fossa trovò uno di quelli che davanti a Pilato chiedevano la liberazione di Barabba. L'uomo stava urlando nel suo dolore. Gli si fermò davanti e gli disse:
- Eccomi qua!
L'uomo lo guardò e piangeva ancora più forte.
- Rabbi, rabbi!
Il maestro disse mansueto:
- Non piangere, alzati e vieni con me, perché torno a Gerusalemme, per chiedere di nuovo giustizia da Pilato per me e per voi che siete stati trattati così da Barabba.
Il miserabile si alzò in piedi e si aggrappò al suo vestito.
- Vengo, maestro, vengo con te! - disse tra le lacrime. - Dimmi che devo fare, che devo dire per salvarmi!
- Nient'altro - disse lui - solo quello che avresti dovuto dire tre giorni fa, quando Pilato chiese: "Chi volete che liberi, Barabba o il Nazzareno"?
- Oh, povero me, - esclamò il miserabile battendo la testa, - come io pazzo ho potuto scegliere Barabba, proprio lui, che mi ha fatto tutto questo!
- Bene - disse il maestro - allora vieni con me davanti la casa di Pilato e, quando faccio il segno, tu urla con tutta la forza: "Il Nazzareno!", come dicessi: "La mia vita!"
E l'uomo lo seguì.
Hanno poi incontrato un altro, a cui Barabba aveva tolto la casa, moglie, figli e l'aveva accecato. Egli lo toccò e gli disse:
- Sono io. Vieni con me a Gerusalemme e, quando ti toccherò con la mano, urla: "Il Nazzareno" ,come urlassi: "La mia casa! La mia moglie! La luce dei miei occhi!"
E quello, singhiozzando, lo seguì.
Poi incontrarono un altro, a cui Barabba aveva legato le mani e i piedi, e l'aveva buttato dentro un stagno puzzolente.
Gli si avvicinò, lo liberò dalle corde e gli disse:
- Ti conosco, eri un poeta, che proclamavi il volo glorioso dell'anima. Vieni con me e, quando ti faccio il segno, urla:" Il Nazzareno!", come se urlassi: "La libertà! La libertà del pensiero e dell'anima!"
Quello annuì, perché la bocca aveva ancora piena di fango, e gli baciò i sandali.
E così andavano avanti, e a loro si unirono sempre altri, tutti miserabili e penalizzati da Barabba. Ed ognuno di loro piangeva e si batteva il petto, e lo supplicava che sarebbe bastato solo un segno per urlare: "Il Nazzareno!" come se avessero urlato:"Pace, pace su tutta la terra!" Era sera quando arrivarono a Gerusalemme, davanti la casa di Pilato, che stava consumando la sua cena abbondante insieme a Barabba, l'assassino. Si abbuffarono di piatti costosi e bevvero vini corposi; i loro vestiti erano fastosi.
Allora il Nazzareno , in testa alla folla, che lo seguiva, si avvicinò e, alzando le sue mani bucate, disse mansueto:
- Pilato, ancora siamo in tempo, devi fare di nuovo giustizia. Il popolo volle Barabba ed io fui crocifisso, ma sono dovuto tornare, perché il popolo non si rendeva conto di quello che aveva fatto. Ecco sono qua; questi dietro me, hanno conosciuto Barabba ed ora vogliono giustizia. Chiedi a loro di nuovo di scegliere, come è scritto nella legge.
Pilato pensò un pò, poi si strinse le spalle e, affacciandosi sulla terrazza e, meravigliandosi per la grande folla, chiese:
- Allora, chi volete che liberi, Barabba o il Nazzareno?
E il maestro fece il segno. E loro come un tuono, risposero:
- Barabba!
E si guardarono spaventati, perché ognuno di loro diceva: "Il Nazzareno"!
Il maestro impallidì e si girò a guardarli. E riconobbe tutti i volti uno ad uno, ma insieme tutti questi visi facevano una testa enorme, che lo guardava con odio e con disprezzo. Gli occhi erano pieni di sangue e dalla bocca puzzolente uscì l'urlo rauco: "Barabba!" come se urlasse: "Morte, morte!".
Pilato, imbarazzato, abbassò gli occhi e gli disse: "Tu vedi".
Ed Egli salì le scale e porse i suoi polsi al boia per farli legare.